18:19

Non passare ora. Non. Passare. Ora.

Corro.

Se faccio in tempo riesco ancora a prendere l’autobus. La borsa pesa ma con un ultimo scatto riesco a svoltare l’angolo. Ancora qualche metro. Arrivato, tana liberatutti. Posso finalmente riprendere fiato. Do una rapida occhiata al tabellone luminoso. Segna le 18:30. Guardo in fondo alla strada e vedo lo scorcio del pullman mentre gira. Lo stronzo è passato prima. La panchina sotto la pensilina è vuota, e rappresenta una tentazione irresistibile per le mie gambe. Le scelte che mi si prospettano sono due: andare alla prossima fermata o aspettare dieci minuti al gelo il prossimo autobus.

La prima opzione mi spingerebbe a guadagnare ben due minuti di vantaggio sul prossimo pullman. Tuttavia, questo mi spingerebbe ad impiegare quei due minuti per recarmi alla prossima fermata e così via dicendo fino successiva, finché non raggiungerò la mia meta stanco e privo di forze, sebbene in tal caso raggiungerei due obiettivi: essere a casa e fare della “sana” attività fisica. Ma le mie gambe sono stanche, tremano, e hanno già dovuto fare centro metri con quaranta chilogrammi di borsa a tracolla con un tempo degno di Yohan Blake.

Guardo la panchina. Guardo le gambe. Mi siedo.

18:20

Arriva una ragazza. Castana, occhi grandi e scuri. Molto bella.

Si ferma vicino al tabellone luminoso e nonostante il freddo riesco a sentire anche il suo profumo. È buonissimo. Non penso potrei dire lo stesso di me al momento. Dopo lo sprint, dubito fortemente che il mio corpo possa produrre piacevoli effluvi.

Lei guarda l’orario, sbuffa. Poi guarda me. Pensa. Dovrei sedermi accanto a lui?  Non ci sono davvero alternative? No piccola, non ci sono, accomodati. Lei si siede con diffidenza.

Avanti cretino, cerca di trovare un argomento di conversazione. Troppo tardi. Lei tira fuori dalla tasca un cellulare. Fai che sia scarico. Non lo è, non lo è mai. Dannati power bank. Una volta almeno il telefono poteva scaricarsi, ma ora sono immortali, anche se dipendono dallo spinotto e da quel tubicino bianco che più che una batteria assomiglia ad una spada laser. Vabbè, è andata.

Lei si china sul telefono e clicca su un’icona. Pian piano inizia a sfiorare lo schermo. Guarda ciò che gli altri hanno fatto di bello nella loro giornata. Sfiora lo schermo, ride. Sfiora ancora, ingrandisce e poi fa una faccia disgustata. Penso che se passassimo più tempo a guardarci intorno invece di guardare la vita degli altri impareremmo molte più cose. Un’altra foto. La guarda meglio. Sul suo volto si disegna un’espressione che riconosco: invidia.

Da quando esistono, i social non hanno fatto altro che generare una strana corsa al riarmo di esperienze e di viaggi, facendo di fatto perdere l’intrinseco valore delle stesse. Tuttavia posso capirla. Guardare una foto spesso ci racconta di un’avventura, di una giornata splendida. E all’istante poco ci importa se è di una persona che manco conosciamo o se è stata scattata dieci anni prima. Noi siamo lì, sotto la pensilina, ad attendere godotianamente l’autobus. L’invidia sorge, posso capirlo.

Ma quella foto provoca anche un altro sentimento, strettamente consequenziale al primo. La vendetta. Così la ragazza esce dal social, va sulla galleria del suo telefonino e apre una foto di lei con le amiche ad un aperitivo. è un foto vecchia di settimane, accuratamente conservata per occasioni come questa. Carica la sua vendetta, eccola servita.

La guardo con tristezza. Chissà se ci fossimo parlati. Guardo l’orario sul tabellone luminoso. Segna le 18:22.

pfz