Le mani tamburellano sul volante al ritmo di Fifty ways to leave your lover di Paul Simon, mentre il piede sinistro ondeggia sinuosamente, limitandosi a sfiorare appena il pedale della frizione. Ci spera davvero, che prima o poi la fila riprenda il suo lento e inesorabile incedere, ma sono passati circa dieci minuti e nessuna delle macchine in coda sembra davvero decisa ad avanzare.

Nella Hyundai bianca alla mia destra, quella che sembra essere una giovane coppia è nel bel mezzo un litigio. Lei ha i piedi sul cruscotto e continua a reclinare il capo verso il ragazzo, muovendo il dito come a rimproverarlo. Lui ha il gomito poggiato sul finestrino e si massaggia la tempia con il pollice e l’indice. Nel mentre che la ragazza continua a parlare, lui volta la testa nella mia direzione.

Ha lo sguardo perso nel vuoto, come quei pesci che ti osservano tristi da dentro l’acquario mentre ripensano alla loro vita nell’oceano, a quando tutto il mare era la loro casa. Ecco, proprio come loro, mi sembra silenziosamente invidioso della mia appartenenza all’oceano.

Ah no, non guarda me. Guarda la Ford grigia poco più avanti sulla mia sinistra, dove un gruppo di ragazze, provate dal sole e dal caldo, scherzano schizzandosi con l’acqua ormai calda delle bottigliette. Noto un leggero sorriso dipingersi sul suo viso.

Lei, del tutto incapace di sopportare la mancanza di attenzione del suo lui, continua a riversare fiumi di parole.

Il giovane, alla fine, prende coraggio e pronuncia giusto due parole, che hanno l’effetto di una diga, di un’enorme muraglia che improvvisamente cheta l’animo della ragazza.

Lei indispettita, si volta dall’altra parte mentre io, divertito, mi domando cosa mai abbia potuto dirle il ragazzo.

La coda riprende a scorrere, non lo saprò mai.


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