Il bar della stazione è sempre lo stesso in tutte le città.

Un luogo anacronistico, dove il tempo è ormai arrivato al capolinea ed attende che venga riprogrammata la nuova corsa.

Il bar della stazione non lo definirei fatiscente, piuttosto direi che è agée.

Un enorme pavimento in gres grigio non pulito dal dopoguerra, con ancora le macchie dei caffè rovesciati il giorno prima. Dei tristi tavolini appiccicati al muro adornano una sala illuminata da ampie finestre che si affacciano sulla piazza della stazione.

Fuori da una di queste, la mia visuale si sofferma su quello che dev’essere uno spacciatore impegnato con il primo cliente della giornata. Vorrei aspettare per vedere come va a finire lo scambio, ma ho troppa fame e decido di avvicinarmi al bancone.

Le due bariste gestiscono il locale con il polso di ferro del sergente Hartman.

La prima, bionda, sta alla cassa, mentre la seconda, mora, dovrebbe servire ai tavoli, ma più che altro passa il suo tempo a chiacchierare con un capotreno provolone.

Diversamente da come in uso in molti locali, le bariste non hanno il compito di ricevere le ordinazioni, bensì di patteggiare la colazione con i clienti.

Arrivo là convinto della mia scelta, la stessa da ormai tanti anni.

– Cornetto e cappuccino. – dico alla barista bionda.

– No cappuccino, non funziona la macchina. – urla la mora, mentre scaraventa fragorosamente delle tazzine nel lavello, prima di riprendere la chiacchierata con il provolone.

– Niente cappuccino. – ripete la bionda, mentre continua a scorrere delle fotografie sul telefonino.

– Allora una spremuta e un cornetto.

La voce della mora rimbomba nuovamente nel salone.

– Non abbiamo arance.

Mi passo la mano sulla faccia.

– Faccia un succo alla pesca.

Questa volta nessuno nuove obiezioni alla scelta. È fatta.

– Sono cinque euro. – dice la bionda, non prima di aver buttato un occhio sotto il bancone per verificare l’effettiva presenza del succo alla pesca.

Tiro fuori dalla tasca il portafoglio e porgo una banconota da dieci alla bionda.

Lei non sfiora neanche la cassa, si limita a fissarmi con lo stesso sguardo deluso di un cane quando si accorge che la ciotola del cibo è vuota.

– Non ho cambio. Hai cinque in monete? – dice con tono seccato.

– No, mi dispiace, ho solo questi. – replico con un filo di nervosismo nella mia voce – Se vuole però posso pagare con la carta. – aggiungo nel mentre che cerco di stamparmi in faccia il sorriso più falso del mondo.

– Sì sì. Aspetti. – ribatte. Prende il POS e digita qualche numero sulla tastierina, prima di porgermelo davanti.

Ogni volta che devo pagare con il POS approccio sempre con la dovuta diffidenza. Non so mai da che parte poggiare la carta, se sullo schermo o se sul piccolo segno dell’NFC che sta nella parte alta della macchinetta.

Propendo per lo schermo, ma immediatamente dal POS parte una luce rossa e un segnale di errore.

– Poggialo là. – ordina la bionda con la gentilezza di un istruttore dei Navy Seals.

Faccio appello a tutta la mia sanità mentale, desisto dalla tentazione di tirarle una testata fra i denti e  appoggio nuovamente la carta sul POS, che finalmente restituisce l’agognata luce verde.

Non appena la cassa inizia a vomitare lo scontrino, la bionda si rivolge verso la sua collega.

– Succo alla pesca! – urla alla mora, che si stacca nuovamente dal provolone con una risata sguaiata.

La bionda mi porge lo scontrino, afferra delle pinze e apre l’agognata teca dei cornetti.

All’interno della vetrinetta, i cornetti sono divisi in due scompartimenti. I cornetti alla mia destra sono molto invitanti, e sembrano appena usciti da un libro di ricette.

Quelli alla mia sinistra, invece, danno l’impressione di avere la stessa età della stazione e di essere, come la Luisona del bar Sport, poco più che oggetti ornamentali.

– Che gusto vuoi?

– Con cosa sono questi? – le chiedo indicando i cornetti alla mia destra.

– Marmellata, crema, Nutella, vuoto.

– Allora vada per la marmellata.

“Marmellata”, ripete fra sé e sé la bionda, prima di spostare le pinze con molta poca convinzione su uno di quelli di sinistra.

– Ho cambiato idea! – la anticipo prima che possa afferrare anche solo una di quelle armi batteriologiche che chiama cornetti.

– Mi dia pure uno di quelli. – le dico indicando i cornetti alla mia destra.

La bionda non si mette lì a fare molte domande, chiude lo sportellino di sinistra e riapre quello di destra, dal quale estrae il mio cornetto.

Prendo il mio cornetto e mi siedo in un tavolino vicino al bancone, in attesa che il mio succo di frutta venga versato.

Nel mentre, di fianco a me, il provolone continua a flirtare con la mora, però in modo sbagliato.

È evidente che abbia ormai la mora nelle sue mani, eppure non riesce a dare il colpo di grazia, impantanandosi in eloqui senza senso.

Il discorso prende una piega surreale quando lui tira fuori dalla tasca un portachiavi a forma di treno, intanto che enuncia i vari nomi tecnici delle parti che compongono una carrozza.

La mora non pare tanto interessata alla spiegazione, quanto più all’interlocutore, e cerca in tutti i modi di assumere una posa provocante nonostante la ridicola toque biancorossa che porta in testa.

Il flirt viene però bloccato sul nascere dalla voce dell’interfono.

Il Frecciarossa 3459 è in arrivo al binario 4.

– È il mio treno. Ci vediamo dopo, se ci sei. – dice lui.

La mora accenna un timido sorriso, lui si affretta a buttare giù il caffè, prima di scomparire dietro le porte della stazione.

Carica per il flirt, la mora trova l’energia necessaria per portarmi il succo alla pesca.

Posso finalmente fare colazione. Butto giù il succo di frutta e, con molta diffidenza, do un morso al cornetto.

Come mi aspettavo, è vuoto.

Come la vita, penso, in un impeto di leopardiano pessimismo cosmico.

Come il mio bicchiere di succo.

Come l’anima della cassiera bionda.

Come la sala, ora che anche il provolone se n’è andato.

Nel mentre che rifletto sugli svantaggi dell’alzarsi presto, do un altro morso al cornetto.

Niente, è sempre vuoto.


pfz