Erano all’incirca le dieci del mattino. La strada non aveva problemi, però c’era la bruma, una strana e inusuale foschia, per essere una domenica di maggio.

Nelle curve la macchina va più veloce. Forza centrifuga, forza centripeta. Ancora non ho ben capito come funzionano, al liceo avevo quattro in fisica. Esco dalla curva molto veloce.

Evidentemente il gatto non sapeva attraversare la strada e doveva essere sordo come una campana, perché ho suonato il clacson per ben due volte. Sterzo bruscamente a sinistra, tutto per non mettere sotto lo stramaledetto gatto.

In ospedale dotti medici e parenti pensano che mi sia schiantato di proposito, credono l’abbia fatto perché la mia storia con Josephine era finita ed io ne ero uscito distrutto. Ed era vero, però non al livello “schiantarsi con l’auto sul muro”, era più al  livello “sbronza violenta con rissa in un locale”. Mia madre piange al mio capezzale, ed io mi chiedo come reagirebbe se sapesse la verità sullo schianto, se sapesse che è stata colpa di un di gatto.

Josephine è china su di me, la voce distrutta, pensa sia sua la colpa. Quel tenero cuore di mia madre la rincuora, dicendole che, sì, è colpa sua. Iniziano a litigare. Vorrei alzarmi, intervenire, dire che è tutta colpa del cazzo di gatto, ma non posso, non riesco.

Josephine piange, e i medici portano via mia madre.

– Scusami. – mi sussurra.

Vorrei chiederle per cosa si scusa, se per il gatto o per avermi tradito con Gaston, il collega di francese della scuola dove insegna. L’irreprensibile Gaston, con quel suo cazzo di pizzetto alla balbo, che mi fa venire voglia di prenderlo e tirarlo forte solo per sentirgli fargli fare qualche urletto da checca isterica francese.

Non è colpa di Josephine se sono in questa condizione, però un po’ mi da soddisfazione che soffra. Quella sottile sensazione di rivalsa che hai anche quando incontri la tua ex rimasta single mentre sei con la tua nuova ragazza.

Il medico dice a mia madre che parlare al malato mentre è in questo stato aiuta tantissimo la ripresa.

Gran bel consiglio del cazzo, ogni giorno mi tocca sentire dieci ore di storie strappalacrime su tutti i problemi che ho passato durante la mia infanzia o sulle crisi coniugali dei miei parenti. Vorrei aprire gli occhi, solo per far vedere che sto bene, solo per far cessare questo girone dantesco del pettegolezzo, ma il mio corpo non risponde.

Dicono che sono passati tre mesi, e che ormai la possibilità che mi riprenda è attorno al 10%.

– Riflettete sullo staccare la spina. – dice il dottor Awen, Rawen, roba del genere.

Non penso immaginino neanche che io possa sentirli. E a dirla tutta, se fossi in loro, non lo penserei neanche io.

Mancano cinque giorni al giorno X, poi mi tolgono gli aiuti. Decisione di famiglia. Non posso biasimarli, se al mio posto ci fosse stato uno di loro, avrei fatto la stessa scelta, e probabilmente l’avrei fatta già al secondo giorno di coma. Per alcuni, pure se il coma non ci fosse stato e avessero avuto solo una gamba rotta.

Chissà se vedrò la luce in fondo al tunnel. Per ora vedo solo un abisso nero, lo stesso che mi ha inghiottito. Se non lo avessi evitato forse il gatto si sarebbe salvato lo stesso. In fondo hanno nove vite. Io una, e se finisce così non sarà certo un gran finale. Sarà più un finale alla Lost, dove tutti rimarranno delusi.

Mi fischiano le orecchie. Il buio inizia a svanire, ma non vedo la luce bianca. Solo la sagoma di quel cazzo di gatto. Si ingrandisce sempre di più. Apro gli occhi.

Una stanza bianca, la luce entra da una finestra alla mia destra. Dove schifo sono? Su una mensola posta in alto, a circa tre metri da me c’è un televisore, sotto il televisore una donna con un camice bianco riordina dei fogli su un tavolino, sopra il tavolino ci sono anche dei bellissimi fiori. Vorrei alzarmi, ma non riesco a muovere i muscoli. Ho le labbra secche, ho bisogno di un bicchiere d’acqua.

– Acqua. – sussurro. 

La donna con il camice bianco si accorge di me. Si spaventa.

-Chiamate il dottor Rowan, presto! – urla.

Passa poco tempo e sono accerchiato da un team di dottori d’élite, quello che pare l’A-Team della neurochirurgia. Uno di loro, un uomo con dei folti baffi grigi, caccia via tutti. Rimaniamo io e lui nella stanza, si siede accanto a me è inizia a parlare.

Mi dice che sono stato in coma per un incidente, e che non pensavano che mi sarei svegliato.

Lo ascolto attentamente mentre sorseggiò il mio bicchiere d’acqua. Fuori dalla stanza, oltre ai dottori riesco anche a vedere due donne, una ragazza sui trent’anni e un’anziana signora che piangono e si abbracciano. Aspetto che il dottore finisca, e gli pongo l’unica domanda alla quale vorrei una risposta.

– Ma voi chi cazzo siete?

pfz