Nonostante tutti i miei sforzi di essere sorridente, la commessa-robot alla cassa numero 4 continua a non mostrare segni di umanità.

Alienata come Charlie Chaplin in Tempi Moderni, continua a passare sullo scanner tutti gli articoli con una inquietante vacuità d’animo. Un moderno Caronte, impegnato a traghettare da una parte all’altra del lungo rullo carote, biscotti, cipolle e detersivi per i piatti.

La cadenza forsennata con la quale fa scivolare i prodotti sul banco genera un ritmo tribale, come in quelle danze propiziatorie che gli indiani compivano prima di una battuta di caccia. Ma proprio mentre la musica mi invasa, e preso dall’estasi del momento ho iniziato anche io a imbustare tutto con una foga berserkeriana, la commessa-robot si ferma.

Sta tenendo in mano un sacchetto, che maneggia con lo stesso disgusto che io riservo al sacchetto dell’umido dimenticato da una settimana. Borbotta qualcosa che non riesco bene a sentire, forse anche per colpa della mascherina che porta.

– Scusi? – chiedo mentre mi avvicino.

– Qualcosa non torna. – mi dice mentre mi passa il sacchetto con ribrezzo – Per favore, fallo vedere alla collega al bancone del pesce.

Mentre lascio da parte i sensi di colpa per aver generato una fila di persone in attesa alla cassa della stessa lunghezza della muraglia cinese, sfreccio per le corsie del supermercato alla stessa velocità di Asafa Powell, stringendo fra le mani il sacchetto incriminato.

In pochi secondi sono davanti al bancone del pesce, a sbracciarmi in modo da farmi notare dall’addetta.

– Dimmi pure. – mi fa la commessa, una giovane ragazza con i capelli biondi e con un sorriso che in questo momento sembra la panacea di tutti i miei mali.

– Posso chiederti di ricontrollare il sacchetto? La tua collega alla cassa dice che qualcosa non le torna. – spiego io molto sommariamente, mentre le allungo il sacchetto e cerco di recuperare l’ossigeno per il secondo sprint.

Lei prende in mano il sacchetto molto stupita. Dopo aver tolto il pesce dal sacchetto, lo soppesa, lo annusa, ma dopo pochi secondi di valutazione ripone nuovamente il tutto in una nuova busta.

– Non c’è niente che non va. – mi dice, porgendomi indietro il pomo della discordia.

– Grazie. – replico.

Con tre lunghe falcate percorro nuovamente la corsia dei surgelati e ritorno alla cassa, dove la commessa robot mi accoglie con un indispettito e glaciale:

– Fatto?

Sento un irrefrenabile desiderio di tirare un destro mariobreghesco alla commessa, ma alla fine mi limito con calma serafica a consegnarle il sacchetto.

– Mah. Comunque qualcosa non mi torna. – ripete galileianamente la commessa-robot mentre passa nuovamente sullo scanner il sacchetto.

– Guardi, la sua collega al bancone mi ha detto che il pesce è a posto. – replico io.

La commessa-robot inclina lateralmente la testa di 45 gradi, lo sguardo a metà fra l’incredulo e l’indispettito.

– Ma io non parlavo del pesce. Dicevo dell’etichetta. Secondo me è sbagliata. – ribatte lei.

– Ah. – è tutto quello che riesce ad uscire dalla mia bocca.

Resto spiazzato, non avevo pensato che il problema fosse l’etichetta.

Così, mentre la commessa-robot scuote la testa e chiude il conto, comunicandomi che fanno 24 euro e 58 centesimi e mi consegna un buono di 5 euro per la prossima spesa da almeno 20 euro, ripenso al fatto che spesso basta davvero poco, per comunicare bene.

– Pago con la carta.


pfz