17:56

È in ritardo di dieci minuti. Dieci minuti passati davanti a un tabellone luminoso che sporadicamente mi segnala l’orario del pullman, mentre nel contempo cerca inutilmente di distrarre la mia mente dal ritardo facendo scorrere inutili notizie sulle ragioni dello sciopero degli autotrasportatori.

Sono nervoso, e per sfogarmi tiro un calcio a una lattina. Nel seguire il rimbalzo lo vedo, in fondo alla strada, venuto direttamente dall’alto dei cieli per riportarmi finalmente a casa. Ma la gioia dura poco, il tempo di constatare la presenza di centinaia di essere viventi che si dimenano dentro il pullman, accalcati in un pezzo di latta di cinque metri per due.

Allungo il braccio, il pullman mette la freccia e si ferma davanti a me. Quello che mi si para davanti non appena l’autista apre la porta davanti è uno spettacolo degno di un girone dantesco. Non è concepibile che tutta quella gente riesca a stare lì dentro, così come non riesco a immaginare come ci starò, lì dentro.

Ma non posso aspettare altri dieci minuti. Mi faccio coraggio, prendo un bel respiro e salgo sul pullman. Accanto al cartello con scritto “Non parlare al conducente”.

Leggo il numero del bus. 714.

17:57

Sono con la faccia schiacciata sul vetro interno del pullman, proprio davanti a un ragazzo seduto, uno dei pochi eletti. Chissà quanto ha pagato per stare seduto lì. Attorno a lui i comuni mortali si aggrappano con la punta delle dita per non cadere a ogni stop. Lo guardo meglio, ha il naso spiaccicato sulla faccia. Non so spiegarlo meglio. Come se un tempo avesse avuto un naso normale e dopo qualcuno lo avesse colpito con una paletta per schiacciare le mosche dritto in faccia. Ha anche un sacco di peli, penso che basterebbe la sua mano destra per fare un toupet.

È lì, seduto, che parla con un altro ragazzo, che per riuscire a parlare con lui rimane appeso come Tarzan con una sola mano. Assomiglia a qualcuno. Solo che non mi viene il nome, così ci penso su.
È proprio uguale a Harrison. Non Ford. George, George Harrison.

Non il George Harrison con la faccia pulita dei primi Beatles, ma quello sporco e barbuto di All Things Must Pass e del concerto in Bangladesh. Mi domando se il George Harrison del pullman sappia anche solo chi sia George Harrison. Vista la sua giovanissima età sarebbe anche una lacuna giustificata. Poi mi ricordo che anch’io avrò più o meno la sua età.

Quindi la vera domanda è: perché io so chi è George Harrison? Cerco la risposta, ma non la trovo.

17:59

Ci avviciniamo a una fermata. L’autista rallenta. Lancio un’occhiata. Cinque persone aspettano in piedi davanti al tabellone. Non ci staranno mai, non qui dentro. Una parte di me prega l’autista di non fermarsi, ma so benissimo che come ha fatto salire me farà salire anche loro. In fondo la legge è uguale per tutti. Il pullman si ferma, e quando l’autista apre le porte mi devo scansare per evitare che una mi colpisca in faccia. Salgono tutti e cinque.

C’è un palazzo arancione proprio sotto la fermata. Un uomo pelato è appena uscito dal portone, vede il pullman che sta per ripartire. Fa un cenno al conducente. Dai, parti. Ma l’autista lo aspetta. Lui sale e fa un cenno con la mano.

Grazie.

Si figuri.

Il conducente chiude la porta e l’autobus riparte.

Il pelatone bastardo è accanto a me. Parla al telefono un italiano davvero ciancicato, e riesco a comprendere solo poche parole: lavoro, uscito, pullman e affollato. Il solito stronzo fortunato. Appena uscito dall’ufficio deve aver trovato il pullman e lo ha preso al volo. Non è dovuto restare in piedi, al freddo, ad aspettare che il pullman arrivasse. Non è giusto, non può avere tutta questa fortuna.

Se c’è una cosa che la vita mi ha insegnato è che la fortuna non esiste. Esistono soltanto dei momenti in cui la sfiga ti lascia in pace.

pfz