18:02

Schiacciato contro il vetro non posso fare a meno di sentire la tragica storia di George Harrison. Lasciato dalla ragazza per aver messo un cuoricino ad un’amica su Facebook lo stesso giorno in cui si rompeva la gamba in una partita di calcetto. Piangerei per la sua storia, ma sono schiacciato sul vetro e mi riesce a stento di respirare.

Il pullman si ferma. George Harrison si agita. Il bastardo fortunato si agita. Tutto il pullman si agita. Sardine che si dimenano nella rete. Mi giro con molta fatica e vedo materializzarsi i controllori. L’autista apre le porte, alcune persone scendono, ma non prima che i controllori abbiano esaminato i loro biglietti. Tiro fuori la tessera. Accanto a me il bastardo si fruga nervosamente le tasche, mentre impreca sottovoce. Gli leggo le labbra. Merda. Scommetto che il pelatone si è dimenticato il biglietto.

I controllori sono dall’altra parte dell’autobus. Il ragazzo con il naso spiaccicato riprende a parlare con George Harrison, che però non sembra molto attento al racconto. Si fruga nelle tasche, la faccia spaventata. Guarda la strada, manca davvero poco alla prossima fermata, forse potrebbe anche riuscire a scappare. L’autobus rallenta.

George si avvicina furtivamente all’uscita centrale. L’autista apre le porte, e anche se George è ancora lontano, riesce con uno scatto a guadagnarsi l’agognata libertà. I controllori lo vedono, e immediatamente smettono di preoccuparsi dei biglietti. Si fanno largo fra i passeggeri come Caronte fra le anime dell’Inferno, e riescono a scendere prima che le porte dell’autobus si richiudano. Mi viene da urlargli, “Corri Forrest, corri!”, ma George non è così veloce.

Viene preso quasi subito. La gamba non è al meglio, e questo non lo ha aiutato. L’autista borbotta qualcosa e riparte. Dal finestrino vedo i controllori fare la multa a George Harrison. Ma non è questa cosa a darmi fastidio. È che quel bastardo fortunato ha davvero più culo che anima. Quasi come per sfottermi si gira verso di me sorridendo, contento di essere scampato alla multa.

18:05

Dal pullman sono scese una ventina di persone, finalmente l’aria all’interno è più respirabile. Sono seduto, la testa appoggiata al vetro, nel posto che un tempo era appartenuto al ragazzo con il naso spiaccicato. Il pullman si ferma al semaforo, e proprio accanto a dove siedo si accosta una Ford grigia.

Il conducente, un uomo sulla quarantina, discute animatamente con una donna, probabilmente la moglie. Nel sedile posteriore un neonato, forse il figlio della coppia, mi nota e mi sorride. Inizio a fare delle facce buffe, e lui ride così tanto che decido di aggiornare il mio repertorio di smorfie. Quando scatta il verde, lui agita le mani quasi come a dirmi addio.

Volto la testa, una ragazza dai ricci neri mi guarda e ride mentre si regge al passamano. Suppongo mi abbia visto mentre facevo le smorfie al bambino. In questo momento vorrei essere uno struzzo per poter sotterrare la mia testa sotto la sabbia. Ma non lo faccio, decido di affrontare la vergogna con spavalderia. La guardo dritto negli occhi e le faccio una smorfia buffa. Lei inizia a ridere. Le faccio notare che c’è un posto libero accanto a me, ma anche lei mi fa un segno. Deve scendere. Le porte del bus si aprono. Prima di scendere mi saluta con la mano. Addio.

18:07

Ancora due fermate e potrò riposare. Ancora due fermate e sarò a casa. L’autista corre, porta il pullman a velocità da formula uno. Una curva a destra. A gomito. Un’anziana si salva dalla caduta aggrappandosi agli “appositi sostegni”, ma la sua busta della spesa non è altrettanto fortunata. Una dozzina di arance e mele rotolano lungo tutto il pullman.

L’autobus si ferma. Eppure non siamo ancora arrivati, non siamo ancora alla fermata. L’autista apre la porta davanti e scende dal pullman, mentre noi passeggeri aiutiamo la signora a raccogliere la frutta. L’autista risale.

Dovete scendere tutti. Si è rotto il cavo.

Raccolgo l’ultima arancia ed esco subito fuori. Uno dei cavi che dava energia al filobus si è tranciato, lasciando fermo l’autobus proprio all’uscita della curva. L’autista telefona alla centrale, mentre noi passeggeri usciamo. Il pelatone bastardo impreca, poi si rivolge a me.

Che sfiga eh? 

Vorrei ricordargli che lui non ha dovuto aspettare l’autobus per dieci minuti, ma non lo faccio e vado dritto per la mia strada. Penso che in fondo poteva anche andarmi peggio, poteva piovere.

Quando rientro a casa, appendo il cappotto fradicio all’attaccapanni. Penserò dopo a farlo asciugare. Mi tolgo le scarpe e le metto in veranda per non sporcare il pavimento. Poi mi stendo sul letto.

Non mi è mai sembrato così comodo.

pfz