L’aria invernale sa essere fredda, specie dopo una giornata di lavoro costellata da interminabili meeting e call piazzate strategicamente alle 18.00. Ora sono le sette e un quarto, e la mia mente ripudia anche solo il pensiero di dover insudiciare o men che mai ripulire l’immacolato piano cottura della cucina.

L’unica soluzione logica è quindi quella di prendere qualcosa al volo. Pizza o altri cibi da portare in casa sono fuori discussione, decido così di prendere un kebab.

Ricordo un tempo in cui i doner kebab erano locali rari e unici, veri e propri gioielli etnico culturali dove si respirava davvero l’aria del medio oriente. Così, mentre il mio cervello si spreca in riflessioni su come la globalizzazione abbia totalmente distrutto la poetica dietro questi posti, come ha fatto con la cultura cinese e giapponese e come farà presto con quella hawaiana, decido di entrare nel doner kebab lungo la strada di casa.

Ci sono sempre passato davanti, ma non mi sono mai sognato di entrare. Appena metto piede dentro, mi ricordo il perché.

Il posto è a dir poco spartano, una stanza di quindici metri quadrati attrezzata solamente con un bancone, dove convivono un grill per il kebab, i vassoi con la verdura e le salse e una piastra dove scaldare i panini, e un frigorifero malandato dove sono contenute le bevande.

Impiego più di qualche secondo per capire che il proprietario si è nascosto dietro al bancone per evitare di essere disturbato. Si limita a giocare con il suo smartphone e a lanciare ogni tanto qualche imprecazione in arabo, non curandosi tanto della mia presenza.

In condizioni normali, punterei verso nuove frontiere culinarie, ma quel giorno ho troppa fame ed ormai ho deciso: ho voglia di un kebab.

Sfodero un poderoso colpo di tosse, grazie al quale finalmente il proprietario si accorge della mia presenza. Si alza scrutandomi torvo e visibilmente controvoglia raggiunge il bancone. Ha un folto pizzetto grigio, una bandana in testa e il naso allungato. Somiglia ad una versione invecchiata di Jesus Quintana de Il grande Lebowski.

– Un kebab senza salsa piccante e cipolla. – gli dico.

Annuisce poco convinto. Posiziona il panino sulla piastra ed inizia a tagliuzzare il kebab mentre gira sul grill. I pezzettini di carne che cadono vengono puntualmente raccolti e buttati dentro il panino. Una volta finito, si avvicina al bancone, ed inizia a riempire il panino, con verdure miste e carote.

– Scibola? – mi chiede Jesus.

– No, grazie. – rispondo.

Dei piccoli anelli di cipolla bianca finiscono all’interno del mio panino, mentre mi domando cosa non fosse chiaro nelle parole “no grazie”.

– Salsa bicante?

– No grazie. Niente salsa piccante. – rispondo con tono deciso, scandendo bene tutte le parole.

Forse prima non sono stato chiaro, mi dico. Magari ho bofonchiato oppure ho parlato sottovoce come spesso mi capita.

Un’abbondante cucchiaiata di salsa piccante finisce dritta nel mio panino.

A questo punto il dialogo è inutile, e posso solo supporre che Jesus Quintana non capisca bene l’italiano, anche se a farne le spese è stato il mio panino.

– Scinque euro.

Gli porgo una banconota ed esco da locale, fortemente convinto che sarà un addio e non un arrivederci. Camminando per strada, mentre addento il mio panino, penso che forse non lo ha fatto in malafede, ma con consapevolezza.

Che poi, in fondo, dovrei ringraziarlo.

L’aria sulla faccia sembra meno fredda dopo un morso ad un kebab con salsa piccante.

pfz