La sala dove sono situate le poltroncine per riposare è permeata dai ruggiti notturni dei passeggeri più anziani.

Ho sfogliato mentalmente tutte le pagine del Kamasutra del sonno, ma in nessuna delle posizioni che ho provato riesco ad addormentarmi.

Il rumore di sottofondo, poi, rende impossibile qualsivoglia riposo delle palpebre. Con le orecchie ormai sature del frastuono provocato dalle basso tube dei miei vicini di posto, decido di uscire sul ponte.

Il pontile di una nave sa essere un posto molto efficace per riflettere, e poi l’aria fresca mi farà bene.

Mentre il sole sta timidamente facendo capolino da dietro le nuvole, mi affaccio dal ponte, ad osservare la scia che la nave si porta dietro di sé mentre segue la sua rotta.

Penso alle rotte. Tutti ne abbiamo una, c’è chi l’ha già tracciata e chi la deve ancora tracciare, chi l’ha tracciata da sé e chi se l’è fatta tracciare da altri.

Rotta. Mi domando perché si chiami così.

Forse perché per quanto puoi forzarla, non la puoi spezzare, o forse è proprio perché dobbiamo andare alla ricerca di qualcosa che è stato spezzato, per ricostruirlo.

O forse perché siamo noi ad essere a pezzi, a doverci ricostruire, ed il viaggio serve solo per rimettere assieme i cocci mancanti.

Sì, quest’ultima mi piace di più, anche se non sono sicuro che sia la risposta corretta.

Guardo di nuovo il sole prima di rientrare nella cabina.


pfz