Dopo aver vagabondato all’interno delle corsie della Conad, essermi ricordato a memoria il codice bilancia per i cipollotti, aver deludentemente dimenticato quello delle arance tarocco che compro da due settimane di fila e aver atteso con calma serafica il mio turno nel reparto salumeria, sono finalmente giunto all’Hillary Step del mio viaggio.

Il momento dello “scarico” della spesa sul rullo rappresenta, in questo momento, l’agognata cima. Una metaforica scalata che grava non tanto sul fisico, quanto sulla psiche dell’essere umano.

La cassa, meta tanto ambita quanto complessa, è un insieme di contraddizioni, il punto d’intersezione di un lemniscata dove finisce una preoccupazione e ne inizia un’altra.

Come sempre, non appena giunto nei pressi del traguardo, la mia materia grigia provvede tempestivamente a ricordarmi ciò che dovevo comprare e non ho comprato, lasciandomi per un attimo in quel limbo decisionale nel quale rifletto se fiondarmi verso i cannellini in barattolo o di accettare la mia condizione mentre rielaboro il menu settimanale nella mia testa.

Opto per la seconda, ma non appena inizio a poggiare la spesa sopra il bancone, alle mie spalle si manifesta un signore di mezza età.

I capelli brizzolati, gli occhiali dalla montatura spessa, e i due grandi punti neri dietro le lenti lo fanno assomigliare a Stephen Colbert.

Tiene fra le braccia quella che con tutta probabilità è la sua cena: una birra, una confezione di prosciutto e un pacco di piadine.

Gli occhi neri di Stephen mi fissano, l’espressione che somiglia a quella di un cane bastonato.

Il suo sguardo si ferma sulla mia spesa, poi nuovamente sulla sua. Mosso da un briciolo di pietà, gli faccio il cenno che aspettava.

– Prego, passi pure. 

Questo mio comportamento riceve elogi da Stephen Colbert, che si perde in arditi paragoni al limite della blasfemia, nonché da un’anziana signora che militava nei pressi dell’altra cassa.

– Fossero tutti come lei i giovanotti.

Nel mentre che gli elogi proseguono e la signora della corsia affianco cerca di propormi per il premio Madre Teresa, la commessa, una donna di mezza età con i capelli biondi e l’espressione di un bulldog , ha già fatto passare la cena di Stephen Colbert sul rullo.

Per qualche istante, la mia anima si sente finalmente libera, quasi in pace con sé stessa. Quella singola buona azione forse non basta, a compensare tutti quei momenti di antipatia sociale che tendo ad avere, ma di sicuro contribuisce a far quadrare un po’ i conti in vista di un remoto giudizio universale.

O almeno così penso, fin quando non mi rendo conto che Stephen Colbert si è improvvisamente fermato.

Colto forse da un’improvviso attacco di OCD, Stephen comincia a tirare fuori dalla tasca monete e ramini di vario taglio. Monetine da uno, due, cinque, dieci, venti centesimi che inizia a depositare con maniacale cura sul palmo della commessa.

Per ogni monetina che poggia sul palmo della cassiera-bulldog, Stephen dice a voce alta la somma dell’importo, convinto in cuor suo di facilitare l’ingrato compito.

Ma proprio al raggiungimento del quorum necessario a saldare il conto, la commessa-bulldog, anch’ella evidentemente pregna di sfiducia verso la razza umana (chi non lo sarebbe stato davanti a tale evento), ricomincia il conteggio nel mentre che posiziona nell’apposito scompartimento ogni singola monetina.

Nel mentre che l’operazione va avanti, Stephen Colbert, che fino a quel momento aveva tenuto bassa la testa per la vergogna, tira lentamente su il capo.

L’espressione da cane bastonato non c’è più, ha lasciato spazio ad un sorriso beffardo che sembra dire: “ci sei cascato anche tu, povero coglione”.

Il suo volto è come trasfigurato, come Verbal Kint che passo dopo passo diventa Keyser Soze nel finale de “I soliti sospetti”.

Una volta che la cassiera chiude la conta, Stephen fugge via con la spesa, non prima di avermi rivolto un ultimo, sagace, sorriso.


pfz